Lì in quella fabbrica, fusione creativa delle diverse arti ed espressione, un appena quattordicenne Marco Amendolara appese ad un albero “Rime Amare”, firmate con lo pseudonimo Omar Dalmjrò. Di quell’ incontro in un luogo speciale, che vuol essere riaperto, la “Fabbrica”, simbolo di quel tòpos, il dove, che, localizzando, determina una cosa come cosa-per-l’uomo, assurgendo a condizione dell’esistenza, punto di riferimento dell’esperienza, che consente la progettualità e l’attuazione, l’esistenza razionale, aprendo a tutte le arti in una visionaria gesaamtkunstwerk ove tentare l’impossibile, e, quindi assumendo la caratteristica comunicativa o sociale di “luogo familiare”, acquisendo il tratto di condizione necessaria di ogni progettualità, il segno, nel suo divenir parola, suono, teatro, gioco che diventa di-segno, archè, principio in quanto da-dove della progettualità, essenziale punto di dipartimento di ogni pensiero, ne parleranno Rino Mele, Alfonso Amendola e Alfredo Nicastri, che si alterneranno ai versi di Marco Amendolara interpretati da Giancarlo Punzi. “Lo spazio necessario dell’incontro – scrive Alfonso Amendola – si realizzò tra preziose plaquette firmate a quattro mani (Città di passaggio, 1985; Fogli selvatici, 1993), prospettive interne alla Fabbrica Felice, seminari collettivi e pratiche vissute nel fluido “doppio magma” (tra poesia e arti visive, in una definizione cara ad Amendolara che in una poesia ad Ugo dedicata lo definisce “Il poeta con la barba greca e i sandali olandesi vestito in blu come un sorriso d’acqua”). Un “doppio magma” che sarà sempre nemico del dogmatismo, dell’arroganza e del privilegio”.
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