Filosofie del mito nel Novecento.

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di Pasquale Martucci

Il termine mito è difficile da definire, per le difficoltà di comprenderne il senso da parte delle culture non primitive. Eppure, a ben riflettere, quella parola è evocata anche nella nostra società e potrebbe offrire all’uomo la prospettiva di un significato insito nelle cose, compreso il suo stesso esistere. Infatti, la mitologia è una forma di pensiero che tende a calarsi nella realtà, onde rivelarne il volto nascosto e gli aspetti più profondi.

Ho letto con attenzione, soffermandomi su diversi autori, il volume, curato da G. Leghissa, E. Manera, “Filosofie del mito nel Novecento” (Carocci, 2020), su cui credo valga la pena riflettere. Si tratta di un libro da intendere quale strumento di confronto tra le varie correnti di pensiero, che permette di dare fondamento ai vincoli collettivi appartenenti alle forme di coesione sociale delle comunità. Di interesse, è il contributo di una trentina di autori, che riprendono i principali studiosi che si sono soffermati sul concetto di mito: antropologi, sociologi, filosofi, psicologi, storici delle religioni, maestri del pensiero complesso.

Pur non condividendo tra loro lo stesso approccio, nel volume sono esposte tesi che si soffermano su questioni politiche, sociali ed economiche, molto presenti nelle innumerevoli discipline umanistiche, individuando le forme più idonee per descrivere e rappresentare la realtà. Il riferimento è alle prese di posizione di alcuni di questi pensatori, anche se mi limito alla parte riguardante: “Teorie, scuole, interpretazioni”, piuttosto che agli sviluppi più recenti ed attuali, in: “Temi, percorsi, snodi”.

Il termine mito, di cui mi sono spesso occupato anche su questo sito, è da cogliere nel suo essere legato alla costruzione di tante cose: racconto, rappresentazioni e immagini, coesione comunitaria, forme identitarie.

Parto dal concetto elaborato da Kerényi, che ha affermato di lasciar parlare i mitologemi e prestare loro ascolto. È possibile cogliere il mito in quanto tale, verificando: il patrimonio religioso e le testimonianze dei popoli senza scrittura; il rapporto delle narrazioni mitiche con le narrazioni culturalmente rilevanti e delle pratiche sociali condivise. Il mito è rilevante come prassi discorsiva (materiale mitologico) non come sostanza, perché è essenzialmente discorso. Eppure non si può non considerare lo sviluppo di forme di conoscenza che si autocertificano come verità naturali, come documenti mitologici relativi ad opere e testi. L’incontro con la cultura classica lo aveva portato alla scoperta dei temi fondamentali, di cui tutti i miti tramandati sino a noi sono altrettante variazioni. Quando incontrò Jung chiarì i rapporti tra gli archetipi psichici e le immagini storicamente concrete della religione greca. In lui la teologia diventa antropologia: la religione greca non appare come il frutto di una fantasia sfrenata o di un’ingenuità “primitiva”, né come il casuale confluire di elementi culturali disparati, ma come una risposta coerente e articolata al problema della presenza dell’uomo nel mondo. (R. Bussa, “Otto e Kerényi: dalla Theophania alla condition humaine”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 55-57)

La posizione di Lévi-Strauss legava nel mito l’irrazionalità, presentata con strumenti razionali, per articolare il senso dell’esistenza dell’uomo nel proprio ambiente. Per lui, Durkheim (“Le forme elementari della vita religiosa”, Meltemi, 2005, or. 1912) aveva spiegato i fenomeni socio-culturali come rappresentazioni collettive, e Mauss nel “Saggio sul dono” (Einaudi 2002, or. 1924) aveva parlato di scambio reciproco, con obbligo di dare, ricevere e restituire, da cui solidarietà tra individui e gruppi. Lévi-Strauss, con “Le strutture elementari della parentela” (Feltrinelli, 2003, or. 1949), parlava di relazioni invarianti (criteri logici) per garantire la sopravvivenza del gruppo. L’antropologia coglie le “strutture profonde, universali, a-temporali e necessarie”, al di là della superficie e all’arbitrarietà, al fine di permettere la costruzione di modelli che, pur non avendo una perfetta rispondenza alla realtà e non sono costrutti soggettivi, hanno valore oggettivo perché mettono in luce le strutture che formano l’ossatura logica della realtà. Sul modello durkheimiano, Lévi-Strauss riprende l’idea della natura psichica dei fatti sociali, intesi come sistemi di idee oggettive, categorie, che nel loro insieme costituiscono lo spirito umano nella sua universalità, ma sono categorie inconsce. Dunque occorre rivolgersi all’architettura logica dello spirito umano al di là delle manifestazioni empiriche. E lo fa soprattutto con “Mythologiques” (Cfr. in particolare: “Il crudo e il cotto”, vol. I, 1964; “L’uomo nudo”, vol. IV, 1971, edizioni Il Saggiatore, 2008), un progetto della seconda metà degli anni sessanta, in cui il mito è l’espressione dell’attività inconscia dello spirito umano e si struttura come linguaggio. Se la lingua è combinazione dei suoni, così i miti sono formati da unità costitutive minime, le cui combinazioni sono determinate da precise regole e danno luogo ad unità significanti. Lavorando per analogie e paragoni, “le immagini connesse alla percezione” e i “concetti” danno origine a generalizzazioni, come risultato di combinazione degli elementi di base costanti. Le strutture permettono al pensiero mitico di produrre un oggetto che abbia l’aspetto di un insieme di eventi, ossia un racconto. È di rilievo la questione del metodo: non si può interpretare un mito da solo, ma occorre collocarlo nel quadro di un corpus mitologico molto più ampio proveniente dalla stessa area culturale. Ciò consente di studiare le varianti della storia, nonché i modi in cui certi temi od oggetti si presentano in miti simili di popolazioni confinanti. Diviene così possibile isolare le singole unità compositive, gli “atomi” narrativi, che Lévi-Strauss chiama “mitemi”, unità minime che non hanno significato in sé ma si combinano a produrre una serie potenzialmente illimitata di significati. (E. Comba, “Lévi-Strauss e l’analisi strutturale del mito”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 142-146)

Per Nancy, “il mito è l’incontro che fa sorgere un mondo e nascere una lingua, che fa sorgere il mondo con la nascita di una lingua”. Il pensiero mitologico è mito, e ciò che si può delineare è la dimensione meccanica che lo produce, attraverso meccanismi mentali esplicitati con metafore e mappature. Il mito è autofigurazione e autoimmaginazione, umanizzazione della natura e naturalizzazione dell’uomo, è il linguaggio per eccellenza. (G. Leghissa, E. Manera, “Introduzione. Mitologie bianche, tra filosofia e scienze umane”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 23-25)

Vernant e Detienne credono che si tratti di un sistema di pensiero che ingloba l’insieme dei racconti essenziali della società. Sottolineano comunque le trasformazioni, il divenire identitario, per mobilitare credenze, valori, saperi, senso comune, caratteristici di una cultura definita. Sono le diverse forme in cui la razionalità di declina nelle sue manifestazioni che si realizzano nel processo storico. (P. Payen, “Da Gernet e Loraux: la riflessione sul mito greco in Francia nel XX secolo”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 222-224)

Jung è convinto che la comunità incontra pericoli esterni e interni (delle coscienze) ed allora genera divieti, sviluppando identificazioni con figure mitiche. Le immagini simboliche sono gli archetipi, le disposizioni funzionali, vuote di contenuti che la cultura e lo sviluppo storico contribuiscono a riempire. Sul piano collettivo, se un’epoca perde il contatto con le forze inconsce e si rifugia in un astratto razionalismo, le forze dell’inconscio collettivo si impossessano delle masse e diventano succubi delle forze inconsce non elaborate (è il caso del nazismo). È impossibile vivere senza miti, i valori collettivi accettati e costruiti in un’evoluzione senza fratture e brusche fughe in avanti. Si tratta di integrare inconscio e coscienza, bene e male. (R. Màdera, “Freud e Jung alla conquista del segreto del mito”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 46-47)

I miti delle origini, nella visione di Durkheim, concepiscono l’uomo dotato dell’energia sacra. I racconti dei rapporti parlano di avvicinamento dell’uomo al sacro e alla forma rigeneratrice. Nei riti positivi c’è il sacrificio, riti rappresentativi e commemorativi. I riti piaculari (atti espiatori, morte) sono simili ai negativi (iniziazione), trasformazione. I riti positivi/sacrificio sono costituiti dal pasto rituale in cui si consuma ritualmente ciò che è vietato (animale totemico) nel processo rituale: 1) garantire la prosperità della specie totemica; 2) ripercorrere le tracce dell’antenato mitico (che sono nel terreno, rocce, pietre); 3) il percorso è attestato da racconti, canti mitici per ricordare le gesta dell’antenato; 4) tutto serve a spingere le gesta ed il significato del rito. Mito, immagine, icona, racconto (in forma orale) che prende forma attraverso l’azione rituale (sacrificio, rappresentazione, mimesi). Mauss riprendendo Wundt, parla di tre tipi di immagini: percettiva; associativa; appercezione (influire sui processi di personificazione). È necessario descrivere le leggi dell’attività mentale dell’uomo evidenziandone le funzioni socio-religiose. (C. Facchini, “Mito e rito nella riflessione teorica di Durkheim e Mauss”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 62-66)

Fabio Dei si riferisce alla concezione di Frazer. L’uomo primitivo per rispondere alle domande generali sul mondo, sollevando il velo che li cela, ricerca senza fine sistemi costruiti e difesi come fortezze. È lo sforzo per comprendere il mondo che si presenta come misterioso e inesplicabile. (F. Dei, “Il mito in Frazer e nelle poetiche del modernismo”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 71)

Per Malinowski, il mito è indispensabile, è una componente essenziale della civiltà. Non si tratta di futile racconto ma di forza attiva operante, non è “spiegazione razionale”, ma “documento programmatico di fede primitiva, di saggezza morale”. In esso ci sono: a) Racconti popolari (storie più o meno fantastiche fatte per divertire); b) Leggende (eventi meravigliosi e straordinari); c) Miti, dotati di valore sacro. Tutti questi esempi intervengono quando le regole richiedono una giustificazione e una garanzia di antichità, realtà e santità. È il nesso tra morale condivisa e organizzazione della vita sociale, perché si tratta di realtà vivente. I miti riguardanti la morte cercano di trasformare un sentimento emotivo dietro il quale si nasconde l’idea di un destino spietato (componente psicologica). La risultanza sociologica ha a che fare con la funzione come sintesi di un sistema di valori e codici che sostengono i legami interpersonali e il sistema sociale. (F. Dei, “Il mito in Malinowski e nell’antropologia sociale britannica”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 83-84)

Se per Radcliffe-Brown (F. Dei, “Il mito in Malinowski e nell’antropologia sociale britannica”, in: “Filosofie del mito del novecento”, cit., 85), il mito è sostegno di sentimenti e valori che costituiscono il legame tra individui e struttura sociale, con Raffaele Pettazzoni, la verità del mito è tale perché è calato nella vita, perché non può essere senza il mondo che lo circonda. Il riferimento è allo storicismo (Vico), fautore dell’allargamento di orizzonti. (T. Silla, “Pettazzoni: il mito tra storia e antropologia”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 93)

Non ci si poteva non riferirsi all’opera di Ernesto de Martino, che intendeva uomo/mito come rapporto vitale. Attraverso il mito si può cogliere la vicenda umana che si confronta con il divenire storico. Il mondo magico, la presenza dell’uomo nel mondo, è assicurato dagli istituti culturali che garantiscono stabilità. Il riferimento è a presenza e crisi della presenza, ed allora il sistema rituale è una sorta di terapia. La destorificazione, l’abolizione temporanea del divenire storico, avviene quando la crisi è insostenibile, ed allora è un efficace dispositivo di ancoraggio dell’esistenza su un piano metastorico che garantisce un argine. È la mediazione dei modelli, che tale articolazione fornisce, per permettere all’agire umano di tornare a situarsi nell’orizzonte formale compromesso dalla crisi. L’entrata in scena di figure mitiche permette il passaggio della crisi dall’individuale al collettivo, soprattutto per non cadere nella psicopatologia. Le immagini mitiche proposte da de Martino con il tarantismo sono simboli della crisi e rappresentano un orizzonte di riscatto; lo stesso accade con il lamento funebre: il piangere attenua il dolore e riduce la situazione dolorosa, presentandosi nei suoi aspetti di impersonalità e stereotipia che permette di superare “l’insopportabilità di trovarci faccia a faccia con la morte che cui riguarda”. Ne: “La fine del mondo”, de Martino parla di un mondo povero di miti (in modo certamente apparente), ed allora si chiede quali siano le tecniche protettive? È la crisi che attanaglia la società attuale, se non si sviluppano gesti umani in grado di fronteggiarla. (M. Tabacchini, “Dramma e salvezza: il carattere protettivo del mito in de Martino”, in: “Filosofie del mito nel Novecento”, cit., 101-106)