L’olio d’oliva. La molitura delle olive tra significati e tradizioni del presente e del passato.

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di Nisia Orsola La Greca Romano

 

Fin dai tempi più antichi l’olio d’oliva rappresenta un elemento costante sulle nostre tavole, che proprio per questo è, oggi, pieno di significati. Omero lo chiamava “liquido d’oro”. Nell’antica Grecia, gli atleti ritualmente lo strofinavano su tutto il corpo.  L’olio d’oliva è stato anche un medicinale. L’albero di ulivo simbolo di abbondanza, gloria e pace, ha dato i suoi rami con foglie a incoronare i vittoriosi nei giochi amichevoli e nelle guerre sanguinose, e l’olio dei suoi frutti ha consacrato le teste più nobili attraverso la storia. Corone di olive e rami di ulivo, emblemi di benedizione e purificazione, erano ritualmente offerti agli dei e ai potenti. La patria di origine dell’olivo va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo olio di sesamo, l’olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come gli Armeni e gli Egiziani. La coltivazione dell’ulivo passò, poi, alle isole del Mediterraneo, quindi in Grecia di cui ritroviamo numerose testimonianze nell’Iliade e nell’Odissea.

I Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici cui davano nomi diversi, agrielaìa, kòtinos, phulìa; i Romani invece, le riunivano tutte sotto la denominazione oleaster, che è poi quella passata nel vocabolario botanico moderno. È grazie alla Magna Grecia, che si estendeva come tutti sappiamo fino al sud della nostra penisola, che la coltivazione e produzione dell’olio d’oliva arrivò in Italia. In Grecia esistevano molti e fiorenti oliveti; particolarmente ricca ne era l’Attica e soprattutto la pianura vicina ad Atene. D’altra parte l’olivo era la pianta sacra alla dea Atena ed era stata lei che, in gara con Posidone per il possesso dell’Attica, aveva vinto facendo nascere l’ulivo dalla sua asta vibrata nel terreno. In suo onore si celebravano le feste dette Panatenee, durante le quali gli atleti vincitori delle gare ricevevano anfore contenenti olio raffinato: si tratta di anfore di una forma molto particolare, con corpo assai panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse “a maniglia”, dette per questo loro particolare uso, panatenaiche.

Nei secoli successivi, Etruschi e Antichi Romani assimilarono le tecniche di coltivazione e lavorazione delle olive, costruendo i primi sistemi meccanici per la produzione dell’olio extravergine d’oliva. Gli autori di quell’epoca descrivono con grande dettaglio le macchine impiegate per la torchiatura delle olive.

Secondo le principali testimonianze storiche, la costruzione dei frantoi iniziò dall’undicesimo secolo sino agli inizi del diciottesimo, principalmente sottoterra per due motivi principali: tale costruzione aveva un costo molto limitato ed inoltre, l’ubicazione sotterranea ottimizzava la conservazione del prodotto grazie ad una temperatura costante. Il classico antico frantoio si presentava più o meno così: vi si accedeva tramite una scala che scendeva dai due ai cinque metri sotto il livello della strada e portava ad un grande spazio dove era posta la vasca per la molitura comprensiva della sua pietra molare posizionata in verticale.

Una storia fatta di grande lavoro al buio, in cui operai condividevano lo spazio con le bestie incaricate di far muovere la ruota molare. È infatti solo dal diciannovesimo secolo che i frantoi si spostano in superficie, in appositi magazzini .

Tra le testimonianze, ritroviamo anche i libri dell’Antico Testamento in cui l’olivo e l’olio di oliva sono spesso nominati : basti pensare che la colomba dell’arca porta a Noè un ramo d’olivo colto sul monte Ararat. L’olivo esigeva molte cure, che potevano risultare anche costose, ma i proprietari degli oliveti erano ben ripagati dei loro disagi: non solo la cucina, ma anche i bagni, i giochi, i ginnasi e persino i funerali, esigevano l’impiego di grandi quantità di olio. Le olive venivano raccolte, a seconda dell’uso cui erano destinate, in periodi diversi: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si raccomandava di staccarle dal ramo con le mani ad una ad una; quelle che non si potevano cogliere salendo sugli alberi, venivano fatte cadere servendosi di lunghi bastoni flessibili (in greco ractriai), sempre ponendo la massima attenzione a non danneggiarle. Alcuni aiutanti raccattavano e riunivano le olive battute che, solitamente venivano macinate il più presto possibile.

La vendita al dettaglio non si praticava solo in campagna o nelle botteghe; era ugualmente attiva nell’agorà, dove venivano trattate le merci più diverse. I mercanti erano installati in baracche, sotto umili tende o, più comunemente, all’aperto, ma questa situazione migliorò ben presto quando furono edificati i primi portici.

Spostandoci all’ambito alimentare l’olio è sempre stato uno dei prodotti principali dell’antichità classica. Nel mondo romano non si usava altro condimento per cucinare, e per condire le insalate si utilizzava l’olio migliore: particolarmente rinomati erano l’olio verde di Venafro, come attestano Marrone, Plinio e Orazio; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione.

Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo. Per questo motivo si consigliava anche di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio.

In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.

Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico. Con le olive verdi si facevano le colymbadas (“le affiorate”), così dette perché galleggiavano in un liquido fatto di una parte di salamoia satura e due parti di aceto.

Un altro tipo di conserva era l’epityrum che si faceva sempre con le olive migliori: era una salsa molto saporita che si otteneva da frutti colti quando cominciavano appena ad ingiallire.

Catone, Plinio e Columella e tutti gli scrittore latini di agricoltura più famosi hanno lasciato insegnamenti sulla coltivazione dell’olivo e sulla produzione dell’olio.

Secondo la mitologia, Atene è intimamente legata alla dea dagli occhi brillanti come le foglie degli ulivi. Per aggiudicarsi la protezione su Atene gareggiarono Poseidone, dio del mare, e Atena, figlia di Zeus, dea della saggezza. Poseidone colpì con il suo tridente la roccia (su cui successivamente sarebbe sorta l’Acropoli) e da questa fece venir fuori una fonte d’acqua marina ed un cavallo più veloce del vento. Atena piantò il primo ulivo, albero che, per millenni, con i suoi frutti avrebbe dato un succo che gli uomini avrebbero potuto usare per la preparazione dei cibi, per la cura del corpo, per la guarigione delle ferite e delle malattie e quale fonte di luce per le abitazioni. Fu assegnata ad Atena la palma della vittoria e così la dea, dagli occhi glauchi, divenne la padrona della città che da lei prese il nome e che in suo onore edificò il Partenone.

Il sec. XVIII è il secolo d’oro per l’olivicoltura nazionale: l’Italia risulta essere la produttrice del miglior olio che si trovi sul mercato europeo.

Anche nel territorio cilentano, fino a qualche decennio fa era necessario caricare l’asino e portarlo al frantoio più vicino. Proprio in questa occasione si portava da mangiare al trappìtaro (proprietario del frantoio), tra i piatti più diffusi erano i rafaiuoli, il baccalà lesso con olio e limone e le zeppole con le alici. L’olio vergine, quello che usciva dalla macina prima della pressatura, veniva raccolto ed usato come condimento delle bruschette, metodo di assaggio dell’olio che rendeva possibile utilizzare quel pane che, magari, non era più fresco e aveva perso la sua fragranza.

Per i rafaiuoli cilentani: fare una sfoglia con 1 kg di farina, 5/6 uova e ripieno di uova, cacio- ricotta, prezzemolo tritato, pepe, aglio. ” Si stende la pasta già lavorata e poi con un bicchierino se ne ricavano tanti tondini. Al centro si mette il ripieno, formato dall’impasto di ricotta, uovo sbattuto, pepe, prezzemolo e aglio. Un tondino serve per coprire l’altro con il ripieno (ci si serve dell’albume per far legare le estremità). Quando l’acqua ,già salata, inizia a bollire ,si immergono per poi raccoglierle ,quando riaffiorano, con una schiumarola. Una buona salsa e pecorino fanno  di questa pietanza una leccornia”. (Per tutte le ricette, AA.VV. “Feste Pagane e Feste Cristiane nella tradizione culinaria del Cilento”, Centro di cultura storica cilentana e tradizioni popolari)

Il secolo XX, con l’arrivo delle nuove tecnologie, ha visto notevolmente semplificato il lavoro di raccolta e di molitura. I nostri antenati ignoravano tutte le odierne scoperte circa la genuinità di tale condimento, ma comunque ne avevano fatto il condimento base della propria alimentazione, povera, sì, ma sana ed esaltata nei sapori e nei profumi dei prodotti della terra. Sapori e profumi che assimilano oggi, come allora, le diverse cucine di tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo.