De Rosa il maggior esperto di Annibale Ruccello, ritorna in scena con Traccia, venerdì 16 Auditorium Centro Sociale di Mamma- con lui parte degli allievi

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Venerdì 16 febbraio alle ore 21.00 presso l’Auditorium del Centro Sociale di Salerno, un “fuori programma” Antonello De Rosa, porterà in scena uno studio intenso su un testo di Annibale Ruccello, tratto da “Mamma…piccole tragedie minimali”. Da oltre 20 anni, De Rosa porta in scena questo spettacolo, da lui denominato Traccia di Mamma. Era il 26 luglio del 2001 quando si presentò al pubblico di Firenze con il suo spettacolo, da quel giorno tante le date e tanti successi ed i premi riscossi in tutta Italia, fra cui il premio alla critica al prestigioso Festival “Le Voci dell ‘Anima” di Rimini. Antonello De Rosa è senza ombra alcuna il maggior esponente della corrente “ruccelliana”, colui che più di tutti ha dedicato la sua vita allo studio del grande drammaturgo scomparso prematuramente, Annibale Ruccello. In scena, con lui, gli studenti- attori di due classi del suo laboratorio teatrale- operativo da oltre 21 anni a Salerno e non solo.

Il lento e implacabile tormento di una donna smarrita nel labirinto della sua mente offuscata, una donna alla deriva, schiacciata dalla follia e dalla memoria, da ricordi spesso abbaglianti, dal dolore di una perdita assurda e maledetta, affaticata da un ruolo e da una vocazione, da un’allucinazione che crede vera e reale e in cui continuamente si perde. Le donne di Antonello De Rosa, come quelle di Ruccello si consumano in silenzio, carnefici e vittime, luce e oscurità, trascinandosi per strade strette e buie e malinconicamente lunghe, senza orizzonti, ignorando l’alba, i tramonti, il mare. In una scenografia essenziale, attraverso un sapiente gioco di luci, prende vita la parola di Ruccello, assaporata e restituita con forza nuova, vissuta nella sua brutale dolcezza e nella sua morbida crudezza. E si odono le voci di donne, di una donna che incarna tutte le altre, nelle righe sofferte di solo due dei quattro monologhi previsti, mescolate, confuse, immerse in una rete di simboli e segni, che diventano un vero e proprio collante tra l’immagine e la parola, tra il gesto e il senso. Ne deriva un testo ristrutturato, alternato, ricomposto, Maria di Carmela- ovvero piccolo delirio manicomiale si fonde con Il mal di denti- ovvero madre e figlia e la telefonata ed è una sola anima quella che si confessa ed un solo respiro quello che si ascolta. Una pazza che crede di essere la Madonna e una madre che scopre con orrore la gravidanza della figlia. La follia che spinge la donna in una tunica che è una camicia di forza e in una camicia di forza che è una tunica, tra lo sfavillio dei paramenti sacri, è senz’altro scandalosa, ma ciò che rende inquietante questa figura è la sua inossidabile ostilità all’ipocrisia. La vicenda si gioca tutta sulla trama delle affinità e dei contrasti: la maternità di Adriana e quella della pazza del manicomio nascono da un’insaziabile e avida fame d’amore, ma vengono rifiutate e calpestate da chi vive la religione come superstizione stancamente reiterata; la donna che ripudia sua figlia, al punto da imporle il suicidio, rivela con inaudita ferocia il lato oscuro dell’essere madre, l’incapacità di perdonare, agli altri e a se stessi. Non resta che un groviglio inestricabile di rabbia sacrilega e follia irriverente, su cui domina implacabile l’immagine di una Madonna-Bambola, cui spetta l’ingrato compito di farsi adorare da un’umanità che fa scempio dell’amore.

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