La casa come habitus.

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di Pasquale Martucci

Emanuele Coccia ha scritto un interessante volume: “Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità” (Einaudi, 2021), in cui al centro delle sue riflessioni pone la casa, ma anche l’agglomerato di case che insieme costituiscono la città, con un approccio filosofico che pone interrogativi sulla natura umana, sul rapporto io e altro, su ricordi ed oggetti. Prima che un artefatto architettonico, la casa è un artefatto psichico, che ci fa vivere meglio adeguando noi stessi a ciò che ci circonda e viceversa, una forma di reciprocità tra cose e persone.

E su tutti, l’habitus, come condivisione di uno spazio sociale incorporato dagli individui: “un sistema di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto principi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adatte al loro scopo senza presupporre la posizione cosciente di fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli”. (P. Bourdieu, “Il senso pratico”, Armando, 2005).

Andando oltre, nella casa si realizza di solito il progetto familiare, vissuto come unità, i cui elementi sono in un’interazione ben determinata. Eiguer parlava di habitat interno, non solo inteso come metafora per capire come viviamo l’ambiente abitabile che ci circonda. Esso è anche un modello che permette di sistemarci nella casa, di utilizzarla e attuare specifiche soddisfazioni. (A. Eiguer, “L’inconscio della casa”, Borla Roma 2007, ed. or. 2004)

La casa è da sempre considerata contenitore e rifugio, una condizione emotiva di appartenenza, sicurezza e intimità. L’esigenza di avere un’abitazione, oltre ad essere un comportamento istintuale, è soprattutto progetto, identità e pragmatismo, sentimento e oggettualità, sogno e concretezza.

Coccia si rifà all’ecologia, da intendere come una serie di pratiche che puntano a creare un rapporto migliore degli esseri umani, l’uno con l’altro, ed al tempo stesso con la vita non-umana. Questo rapporto, che dovrebbe somigliare alla nostra socialità domestica, permette affermare che la vita sul pianeta è una grande casa. Tante case insieme sono città, una forma di monocultura (umana) che respinge fuori di sé tutto quello che non le somiglia, le confina in una “foresta” (dal latino foris, cioè fuori), il luogo in cui si raccolgono gli esclusi, gli esiliati dalla città. Foresta, andrebbe per l’autore tradotta, letteralmente con “campo profughi” e non come luogo naturale per gli alberi, gli animali, i batteri, i virus. Occorrerebbe ripensare la casa per ricostruire la società e produrre il cambiamento, scavando in questo spazio una serie di corridoi invisibili che capovolgono lo spazio domestico, lo rivoluzionano e lo trasformano in qualcosa di diverso.

Che cos’è la casa? In genere, identifichiamo le nostre case con il loro guscio architettonico, fatto di pareti, soffitti, pavimenti. Quando si entra in casa la prima volta non c’è niente: un letto, un materasso, una sedia e nemmeno un piatto o una forchetta, nessuno degli oggetti che le popolano. Uno spazio del genere non è fisicamente abitabile, perché per essere tale deve essere vivo. L’idea di spazio è un’astrazione: abitiamo in un mondo che non è spazio ma apre allo spazio. Se in una foresta gli alberi non occupano spazio ma piuttosto aprono lo spazio della foresta, lo stesso vale per le case: sono spazio reale e non immaginario gli stessi oggetti che occupano spazio. Abitiamo veramente solo gli oggetti, che catturano i nostri corpi, spesso senza che nemmeno ce ne accorgiamo. L’uso, la routine quotidiana ripetuta e prolungata per giorni, settimane, mesi e anni lasciano tracce, trasferiscono una parte della nostra personalità e soggettività. Pertanto, in casa gli oggetti diventano soggetti. Ecco una prima definizione di casa: la casa è lo spazio in cui tutti gli oggetti esistono come soggetti (Coccia).

Vediamo simbolicamente cosa rappresentano gli spazi domestici, attraverso il volume: AA.VV., “Il libro dei simboli. Riflessioni sulle immagini archetipe” di A. Ronnberg e K. Martin, Taschen – Inter Logos Modena 2011 – Archive for Research in Archetypal Symbolism 2010.

Nei sogni, la psiche è spesso raffigurata come una casa: a volte ci sono piani diversi che indicano una continuità temporale, stanze familiari sconosciute, nascoste o che svelano potenzialità polivalenti. La casa può diventare una prigione o un rifugio: “si può rimanere bloccati al suo interno o ci si può confinare per scelta”; vi si può trovare armonia o piuttosto violenza domestica; “la casa può rappresentare lo sviluppo del sé, ma anche la sua profanazione”. Le persone scappano di casa, ci rimangono a lungo, vi fanno ritorno.

Per quanto riguarda le parti strutturali delle abitazioni, le porte si trovano a metà strada tra il noto e l’ignoto, separano il mondo interno da quello esterno, il sonno e la veglia. Sono varchi tra la coscienza quotidiana e la dimensione trascendentale, una transizione tra uno stato e un altro. Le porte e i cancelli proteggono la casa e la famiglia dagli estranei: vengono edificate barriere e porte a sua difesa, si segnano i confini. Anche le finestre sono aperture che lasciano trasparire l’aria, il sole. Sono il luogo in cui interno ed esterno si incontrano unendo diversi mondi e i loro elementi.

Anticamente le scale erano ripide e caratterizzate da innumerevoli gradini, una sorta di ascesa verso il cielo, “una transizione tra la vita e la morte”. Le scale però portano anche verso il basso, “i vincoli e la pesantezza delle profondità saturnine”, la discesa verso i misteri, la magia, i tesori nascosti, l’iniziazione. Le scale poi indicano passaggi difficili: percorrere una scala è avanzare verso l’alto o il basso compiendo un passo alla volta, “ciascuno dei quali comporta una temporanea destabilizzazione e un successivo riequilibrio”.

Originariamente, la soffitta era concepita come ambiente immerso nella penombra, con poca luce, un luogo di scoperte fortuite “traboccante dell’intensità emotiva degli oggetti abbandonati”, un luogo nascosto. Ci sono ricordi dell’infanzia, residui della vita passata, indizi “degli scheletri nell’armadio di ogni famiglia”. La soffitta evoca l’idea di cose rimosse, ma mai del tutto abbandonate; contiene elementi conosciuti e sconosciuti, “pronti ad essere scoperti, benché non debbano necessariamente rivelarsi”. La soffitta contiene in sé fascino, repulsione, attrazione: si entra nella soffitta per fare ordine, esplorare, immaginare, “gettare luce sulla materia e farla rivivere”. Al contrario, gli scantinati nacquero come magazzini per riporre prodotti alimentari deperibili, per accumulare provviste. Il termine sta ad indicare il celare, nascondere, tenere segreto. Sono i depositi sotterranei di messi e raccolti, che hanno analogia con la cella del monaco che assimila i frutti dell’educazione spirituale per cercare l’incontro con Dio. È anche il luogo in basso, quello della morte in cui si esprime il simbolico ventre dell’oltretomba, dove le cose possono maturare e al tempo stesso decomporsi.

Il focolare è l’immagine per eccellenza della casa, il fuoco vivo della vita: può cambiare ma il suo spirito sopravvive quando i membri della famiglia si riuniscono in questo centro vitale della casa. Alla presenza del focolare si estrinseca la vita dell’uomo: la persona si sente dentro e non fuori, vicina e non lontana, equilibrata e non instabile, insomma protetta.

La camera da letto è un luogo senza tempo, un rifugio di quiete e serenità. Si può entrare in contatto con il proprio sé privato, liberandosi dei vestiti, andando a dormire e a sognare, facendo l’amore, recuperando le energie dallo stress del mondo esterno. La camera da letto è collocata lontana dall’ingresso, dalla cucina e dal soggiorno per la sua caratteristica di intimità. La camera da letto evoca i misteri femminili, la seduzione e la generazione: è il luogo in cui “si esplica una continuità rituale tra la morte e la rinascita simbolica”. La camera da letto può anche essere associata al buio, al soprannaturale: nella camera da letto avvengono liti, violenze, malattie e morti.

Coccia dedica un posto di rilievo alla cucina, che ci permette di aprire al mondo. La cucina è il luogo della trasformazione del cibo, ma anche la trasformazione della nostra vita, di “tutto ciò che noi ingeriamo, digeriamo, metabolizziamo”. Essa evoca il centro della casa, dato il suo legame originario con il focolare, il calderone, “lo stomaco all’interno del corpo”, il “nucleo creativo della psiche”. È il centro in cui convergono diversi tipi di energia: chiacchiere, litigi, giochi, pettegolezzi, creatività e nutrimento. La cucina è associata al principio femminile in quanto “contenitore e fonte”. La casa dovrebbe essere una cucina comune, una sorta di laboratorio comune in cui provare a inventarci per trovare il giusto punto di fusione e produrre una felicità comune.

Il libro di Emanuele Coccia pone in relazione la casa con la pandemia: infatti, quante analisi sulla casa sono state compiute proprio in questo lungo periodo di “reclusione” delle persone. Il Covid-19 non solo ha distrutto centinaia di migliaia di vite, ma ha anche causato il suicidio della vita politica così come l’abbiamo conosciuta e praticata per secoli; ha costretto l’umanità ad avviare uno strano esperimento di monacato globale, in cui siamo tutti anacoreti che si ritirano nel proprio spazio privato. Quello che ci rimane sono le nostre abitazioni: non importa se siano piccole o grandi, appartamenti o case vere e proprie. Tutto è diventato casa.

La reazione alla crisi originata dal Covid-19 è stata una radicalizzazione del pensiero ecologico: se gli uomini si sono arrogati il diritto di viaggiare ovunque e vivere liberamente, in questo periodo tutti gli esseri viventi, nessuno escluso, devono esistere e resistere nelle mura domestiche. Infatti, per mesi siamo stati rinchiusi all’interno di un perimetro filosofico e non ce ne siamo accorti; il lockdown ci ha spinto a rivalutare i balconi, frequentare le cucine invece dei ristoranti, invocare gli studioli per “zoomare” in pace. Eppure, abbiamo continuato a pensare che il dispiegamento di vita in forme rilevanti fosse fuori, sospeso, ci stesse semplicemente aspettando.

La conclusione del libro è che, nonostante tutto, costruiamo case per accogliere in una forma di intimità la porzione di mondo, fatta di cose, persone, animali, piante, atmosfere, eventi, immagini e ricordi, che rendono possibile la nostra stessa felicità.