Bastimento Napoli, venerdì 8 all’Atrio del Duomo per Salerno Classica.

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Terzo appuntamento per la II edizione di Salerno Classica, che venerdì 8 luglio, quadriportico del Duomo, alle ore 21, inaugura la sua Estate, dopo aver archiviato in grande stile la Primavera, un cartellone eterogeneo ideato dalla Associazione Gestione Musica, che ha concorso e ottenuto il finanziamento dal Fondo unico per lo Spettacolo.  Questa terza serata, che saluterà protagonisti l’Ensemble Lirico Italiano diretto da Francesco D’Arcangelo con il soprano Annalisa D’Agosto, la chitarra e la voce popolare di Fernando Galano, l’attore Sergio Mari e la ballerina Alessandra Ranucci, ha come titolo Bastimento Napoli, uno spettacolo di musica e parole scritto a quattro mani da Sergio Mari e Fabio Marone, con gli arrangiamenti di Giovanni Liguori.

Sarà questo Bastimento Napoli guidato dalla sirena Partenope; un excursus nella storia della tradizione napoletana attraverso le pagine più amate e anche poco conosciute della nostra tradizione musicale. Risulta non facile fissare la specifica identità della canzone napoletana, perché essa è come un mare che ha ricevuto acqua da tanti fiumi. E’ figlia della poesia, come quasi tutti i canti di antica tradizione, e ha espresso, come le è universalmente riconosciuto i sentimenti, la storia e i costumi di un popolo. Nello stesso tempo, però, si è adattata alle esigenze di mercato, diventando, di volta in volta, canzone di taverna, da salotto, da ballo, teatrale, sia comica che drammatica, e chi sa quante altre cose ancora. Non sempre e non solo bisogno di canto e di poesia, quindi, ma anche buono o cattivo artigianato. Il fatto singolare è che la canzone, “porosa” come la città – per dirla con la definizione che Benjamin coniò per Napoli -, ha assorbito tutto, riuscendo a rimanere in fondo se stessa. Malgrado sia stata contaminata, nel tempo, da sonorità appartenenti ad altre culture e ad altri generi musicali, la melodia napoletana è riuscita a conservare un suo codice di riconoscimento, un proprio DNA, quel “profumo”, che la rende inconfondibile, come una lingua perduta, della quale abbiamo forse dimenticato il senso e serbato soltanto l’armonia, una reminiscenza, la lingua di prima e forse anche la lingua di dopo. Musiche e versi che con i loro contenuti hanno raccontato semplicità ed erotismo, essoterismo e magia, rituali sacri e profani, feste popolari. Ed è proprio qui che trova origine questo incredibile canzoniere, dove le suggestioni, le intonazioni, le evocazioni del nostro vernacolo si trasforma in un canto ora dolente, ora euforico, capace di esprimere l’eterno incanto dei sensi di questa magica sirena Partenope. “Tu m’aje prommiso quattro moccatora…”è questo il più antico frammento di canzone napoletana che ci è pervenuto, risalente alla fine del 1200. E’ questo il canto delle lavandaie del Vomero che Pasolini, nel suo Decameron, fa risuonare nelle strade della città partenopea. Il rapporto fra le villanelle nella forma originaria e la canzone napoletana è innegabile. Ce ne accorgeremo in questo viaggio attraverso quella mescolanza che ritroviamo nella deliziosa canzonetta di Gaetano Donizetti, “Me voglio fa’ ‘na casa”, che ci porta in pieno Ottocento e in cui la melodia partenopea si incrocia con la limpidezza formale del grande operista bergamasco o anche con una fortunatissima canzone un tempo attribuita a Donizetti, “Te voglio bene assaje”, ma composta nel 1839, dall’ottico Raffaele Sacco e da  Filippo Campanella, la conturbante Cicerenella che chiuderà idealmente il cerchio fra antico e moderno, tradizione e cultura: la tarantella dall’inquietante tonalità in minore, la tarantella dall’inquietante tonalità in minore, che risale probabilmente al Quattrocento, la Danza di Gioacchino Rossini, la famosa tarantella notturna che impazza in un infuocato blue-moon napoletano. Quindi la D’Agosto  ricreerà l’atmosfera primo novecento dei Café Chantant, da dove ci invierà diverse cartoline con le melodie più belle del repertorio partenopeo, da “I’ te vurrìa vasà”, “Santa Lucia”, “ ‘O surdato ‘nammurato“, “’A tazz’e cafè”, “Lily Kangy”. E ancora inframmezzate dai monologhi recitati da Sergio Mari dedicati al rivoluzionario Masaniello, al grande impresario Domenico Barbaja, al bel Gagà, a Pulcinella, l’anima di Napoli che non muore mai, i grandi classici del periodo d’oro, “Torna a Surriento”, “Core ‘ngrato” “’O paese d’ ‘o sole”, “’O sole mio”. Si giungerà fino a Pino Daniele, certo il maggiore fra i cantori della Napoli moderna, perché napoletane e moderne sono alcune delle sue canzoni più belle, cantate ancora oggi dai posteggiatori e fatte proprie da tutti. L’operazione riuscita a Daniele è più di ogni altra straordinaria perché, pur contaminando e fondendo la melodia con rock, jazz e blues, è assolutamente presente in tutte le sue canzoni quell’originario Dna, che le fa riconoscere per tali, in una perfetta fusione di innovazione e tradizione. La stagione della canzone napoletana è sembrata tante volte esaurita. Invece, quel misterioso e sfuggente Dna, ogni tanto ricompare, nelle canzoni dimostra la vitalità di una tradizione inesauribile, ed ecco che fra un’antica villanella di Velardiniello e la canzone di Pino Daniele passano più di quattrocento anni eppure, se provate a canticchiare o ad accennare al pianoforte, magari con un dito solo, qualche frase di Boccuccia de no pierzeco apreturo e di seguito qualcuna di Napule è, vi accorgerete che hanno la stessa matrice, che sono figlie della stessa madre. Dal mare nascono e al mare ritornano, infatti, le note di questo concerto, che abbracciano la tradizione popolare, la “poesia cantata” del repertorio d’autore, completata dalla memoria sonora collettiva con il vigore ritmico e l’aggressività espressiva che sa trasformarsi in danza e nella eterna sfida del popolo partenopeo alla vita.