GRANDE SUCCESSO PER LA MOSTRA “NATURALIS HISTORIA” DI DEBORAH NAPOLITANO ALLA “FONDAZIONE EBRIS”

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“Le opere di Deborah Napolitano danno una forte idea di speranza: un invito alla visibilità. Una sorta di manuale d’istruzioni per l’uso del saper guardare e trovare la bellezza. E’ nell’invisibile che si staglia la bellezza della visibilità. Deborah ci fornisce gli strumenti per poter discernere quello che è il bello da quello che bello non è ”. E’ questa la chiave di lettura della mostra “Naturalis Historia”, dell’architetto e designer Deborah Napolitano, fornita dalla studiosa di estetica, Sara Matetich, dopo aver osservato attentamente le opere create dall’artista salernitana, esposte nel restaurato convento di San Nicola di Via De Renzi, sede della “Fondazione Ebris”, presieduta dal professor Alessio Fasano.

Il titolo della mostra, organizzata nell’ambito della rassegna “Researching Art”, ideata e curata dalla dottoressa Maria Giovanna Sessa, è stato ispirato dal “Naturalis historia”, un trattato naturalistico scritto da Plinio il Vecchio:” In realtà il trattato di Plinio è una sorta di manuale scientifico scritto in forma enciclopedica. Io ho scelto questo titolo per la mia mostra perché volevo esprimere in chiave moderna il rapporto uomo – natura” ha spiegato l’architetto – ceramista – scultrice. La prima opera esposta è un pannello ligneo, posto davanti ad una delle panoramiche finestre del convento, sul quale campeggia una scritta in gesso che dà il titolo all’opera:” Vietato Vedere” con affianco una piccola apertura avente la forma di un buco di una serratura attraverso il quale si può vedere solo una parte della città, anzi un unico e stupendo edificio: la con la sua meravigliosa cupola maiolicata. Lungo il percorso della mostra troviamo “I Guardiani” : quattro elmi di guerriero, realizzati in terracotta trattata con l’antica tecnica dell’ingobbio, con gli occhi vuoti, magnetici, quasi inquietanti:” Sono i numi tutelari che devono proteggere la natura dalla violenza degli uomini”.

Simbolo della mostra sono delle mani colorate, in terracotta, poste su una sorta di altare in legno scurito e ferro grezzo:” E’ un altare profano nel quale i simboli religiosi sono stati sostituiti dai simboli dell’uomo: la mano è la parte antropomorfa che rappresenta l’umanità”. Le mani, che diventano quasi delle icone sacre, sono protagoniste: mani come edicole votive poste su piccoli altari, in nicchie, sospese nel vuoto, quasi a dialogare con la storia del luogo. In una sala una grande mano, sormontata da simboli esoterici, realizzata con tondini di acciaio trafilato che normalmente vengono utilizzati per armare travi e pilastri in cemento:”Simboleggia la fragilità della nostra società, basata su pilastri effimeri”.

Dechirichiani i manichini in terracotta realizzati da Deborah Napolitano: ” Sono due figure antropomorfe nelle quali la parte umana è tolta per gradi, fino a trasformarsi in forme geometriche, simboli, che rappresentano la nostra essenza”. 

Un’opera quasi di design ricorda le difficoltà e gli ostacoli che s’incontrano nel cammino della vita: tre sedie in ferro, arrampicate una sull’altra con le sedute e gli schienali realizzati con piante grasse, in ferro, con le loro spine:” Su una delle sedute che dovrebbe essere accogliente e confortevole, ho inserito un Echinocactus volgarmente noto come cuscino della suocera”.

A chiudere la mostra, sul pavimento del cortile dell’ex convento, lo schema dell’antico gioco della campana dove i numeri invece di essere segnati con un gessetto, sono realizzati in ferro e con dei chiodi: ” Anche nel gioco può nascondersi l’insidia, la pericolosità, la minaccia”. Il percorso visivo è accompagnato da un percorso sonoro: brani di musica elettronica di stampo prettamente ambient /drone, composti dal giovane musicista Anacleto Vitolo, rendono l’atmosfera magica, quasi .metafisica. Un’opera tra le opere è sicuramente il video realizzato da Michele Calocero, che ha realizzato anche le foto per il catalogo della mostra, e Federico Fasulo. “Nel video sono protagoniste le mie opere. Io sono presente come ombra, come filtro, quasi come una presenza assente”.

Aniello Palumbo