LA PENA TRA MORTE, PERDONO E VERITA’

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Come si è giunti a ritenere ed utilizzare la pena di morte strumento essenziale del potere per far conciliare la verità di cui quest’ultimo aveva bisogno con la verità  del reo?

Adriano Prosperi lo spiega bene nel suoi ultimo “Delitto e perdono. La pena capitale nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana. XIV – XVIII secolo” Einaudi, 2013.

L’Autore argomenta e documenta la sua ricerca intorno alla funzione stessa della giustizia: tra eliminazione fisica del malvagio e punizione che gli permetta di pentirsi e di rigenerarsi moralmente;  tra vendetta e perdono per arrivare ad una cristianizzazione della morte stessa come pena.

Prosperi, nelle sue pagine, riflette su cristianesimo e morte “data”, intesa come una vita tolta con la violenza; uno spettacolo pubblico in cui la croce cristiana campeggia al centro di una grande festa crudele e dove sui patiboli si celebra l’offerta di vita del criminale sia come espiazione dei peccati, sia come purificazione del male per tutta la comunità.

In un tal scenario, spiega Prosperi, nel cupo contesto delle sale di tortura, delle “notti malinconiche” del conforto e nel percorso pubblico del condannato tra gli incappucciati verso la forca o la mannaia, si combatte una battaglia mortale per la verità estorta e sovrapposta nei suoi piani.

Infatti, quella che si intende ottenere è la verità dai volti diversi.

C’è la verità dei delitti e quella dei peccati che si sovrappongono, mescolando indistintamente reati pubblici e pensieri segreti. E ci sono, appunto, gli strumenti per ottenere la verità.

La conversione dell’eretico è uno di questi.

Non fu per caso – scrive Prosperi – che il tribunale dell’inquisizione sperimentò per primo l’importanza della conversione dell’eretico prima di mandarlo a morte, introducendo la pratica dei visitatori- persuasori nel carcere.

Si raccoglievano gli “scarichi di coscienza”, cioè le dichiarazioni con cui il condannato fa ammenda, tentando di essere liberato nella ricerca della salvezza eterna mediante la salvezza del corpo da una morte orribile quanto minacciata.

Una salvezza monito pubblico. Di suo, infatti, la Chiesa porterà la rivendicazione  di una giurisdizione esclusiva sull’anima e sul suo destino nell’aldilà: quella del condannato ma anche e prima ancora quella dei fedeli, che impareranno dalla morte dell’eretico e del delinquente a osservare le regole e, soprattutto, a obbedire.

Si fissava in profondità, così, nel concetto cristiano della giustizia quella indistinzione tra delitto e peccato che doveva durare fino e Beccaria.

Prosperi, in conclusione, evidenzia mirabilmente la progressiva istituzionalizzazione ed il conseguente controllo della legittimazione sociale della morte come pena verso un miraggio correzionalista.

Lo stesso miraggio di chi oggi accompagna l’uso della pena giustificando la bontà del castigo in nome di una sperata riconciliazione cercata non mediante una civile risocializzazione (pure contemplata nella Costituzione), ma con la sofferenza inflitta nell’anima e sui corpi di coloro che vi sono costretti in condizioni carcerarie definite dalla Corte europea inumane  e degradanti al pari di una moderna tortura.

Con l’aggravante che, di recente, il diritto ecclesiastico ha abolito l’ergastolo e introdotto il reato di tortura. Paradossi!