CULTURE ALLA SBARRA

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Culture alla sbarra (F. Gianaria e A. Mittone, Einaudi, 2014) e Coloro che arrivano (F. M. Cacciatore, Mimesis, 2013) costituiscono due importanti lavori, diversi tra loro per impostazione e perché apparentemente distanti reciprocamente gli Autori per il rispettivo punto di partenza professionale (avvocati i primi e filosofo il secondo) che, avvertendo la comune sensibilità di affrontare il grave problema dell’immigrazione -e delle sue connessioni- trattando aspetti diversi del tema, giungono per fortuita (?) coincidenza alle medesime conclusioni.

Il primo lavoro si pone la domanda di fondo: quanto possa e debba influire, nell’aula di tribunale, la cultura di appartenenza del migrante che viola la legge penale del nostro Paese?

Il secondo: come sia possibile costruire una <<costituzione di cittadinanza>>, in cui il tessuto fondativo ed irrinunciabile del diritto non sia nuova occasione di autarchia e marchio autoctono.

La riflessione dei due avvocati non è distante da quella del filosofo e la lettura comparata consente ancora una volta di affermare che il diritto non può non essere la vita e di questa non deve disinteressarsi, ma, attraverso lo strumento del suo sensore vibrante fatto dal caso concreto (la giurisprudenza), deve avere la capacità di essere sempre più prossima alla realtà in movimento della società- con le sue culture, i suoi flussi e le sue intersezioni, i suoi punti di crisi nei quali i bisogni assumono l’aspetto della sofferenza da tutelare insieme alle garanzie da riconoscere – in modo che non si trasformi in strumento di esclusione.

Gli avvocati argomentano che al mutamento della società segue la necessità del mutamento nelle istituzioni: prime fra tutte, il diritto e si chiedono come si stia adeguando il sistema giuridico italiano al tessuto sociale multietnico del nostro Paese se, come addirittura con maggiore frequenza si osserva, configurazioni di nuovi reati sono influenzate dal retaggio culturale che imprimono alla stessa condotta criminosa uno stampo di diversità.

Il filosofo, attraverso rigorosissime ricerche storico- filosofiche sul concetto di democrazia e il nesso discendenza\appartenenza\cittadinanza, volge il capo alla condizione di coloro che- con superficialità- definiti immigrati, subiscono la perdita della loro alterità, per essere confusi in un generale universalismo nominalistico che li trasforma in estranei da cui difendersi comunque.

Questa la cornice generale, si tenterà un approfondimento tanto più utile quanto è preziosa la necessità difendere i diritti in un’aula di giustizia anche con gli occhiali del pensatore che specula sullo spirito della legge e che impone di veleggiare verso l’orizzonte dell’insopprimibilità del respiro del destino dell’intera umanità (di questo si è grati a F.M. Cacciatore).

Addentrandosi, così, nel libro di Gianaria e Mittone, non può non rilevarsi come costoro- a ragione- sostengano che i fattori culturali, intesi come sistemi di simboli, di tradizioni consolidate, di strumenti di orientamento possano condurre il soggetto a scontrarsi con i principi dominanti della comunità in cui vive. E per questo portarlo a delinquere!

Il ragionare per categorie astratte (i giovani coatti, i baschi, i calabresi etc.)- affermano gli avvocati- porta inevitabilmente a pregiudicare chi fa parte di quel gruppo identificando le differenze in stereotipo che non rispecchiano la realtà.

Non è vero, infatti, che i baschi, i calabresi e i giovani delle periferie siano tutti uguali e attribuire loro una omogeneità culturale è fuorviante. All’interno di ciascun gruppo ogni individuo assume una diversa disponibilità verso l’integrazione con altri gruppi e si rapporta in modo differente con i codici che gli sono tradizionalmente propri.

I due avvocati non si avventurano affatto- e qui è definitivamente credibile e convincente il loro sforzo- in una difesa giustificazionista delle diversità quasi fosse una sorta di zona franca ideale per la quale sia consentito consumare reati.

Essi, infatti, deplorano quelli che definiscono <<crimini per convinzione>> e distinguono la violenza religiosa e la organizzazione malavitosa con la dovuta lucidità.

Il gesto dell’attentatore indù, l’azione terroristica jiadista, l’aggressione organizzata da un gruppo cristiano antiabortista, per indicarne alcuni- dicono-, sono frutto di una cultura di morte, oltre che di espressioni di una cultura retrostante che si intende rivendicare.

Dunque, concludono, non vi è ragione perché vengano accolti nel tormentato dibattito sui temi problematici delle società multiculturali.

Lo stesso è a dirsi per le associazioni criminali, le quali- secondo gli Autori- sono esclusivamente un’industria di violenza che fornisce protezione, e ai codici tradizionali si è sostanzialmente sostituito un manuale per l’arricchimento che rappresenta il reale riferimento operativo dell’associazione: la mafia- concludono- Gianaria e Mittone- è una specifica attività economica, un’industria che produce e vende protezione privata.

Ma- sono gli interrogativi finali- come si garantisce allora il diritto all’identità culturale del migrante accompagnato da valori differenti dai nostri; come ci garantiamo noi, quando quel migrante giunge nel nostro Paese e commette reati in qualche modo legati al bagaglio culturale che porta con sé. La soluzione potrebbe consistere nel poter contare su uno <<statuto del migrante>> che fissi i comportamenti, la responsabilità e la pena in presenza di elementi culturali?

La risposta è decisamente negativa, dal momento che si darebbe vita ad un’improbabile architettura normativa votata alla finalità di garantire pene a seconda delle razze e delle etnie.

Lo strumento idoneo- sostengono gli avvocati, forti della loro personale esperienza quotidiana- sembra invece essere la valutazione prudente del caso per caso: solo nel processo si può tenere conto di tutti gli elementi, quali il tempo trascorso nel paese ospitante, la conoscenza della lingua, il livello d’integrazione raggiunto, il grado di assimilazione nel nuovo contesto sociale, la qualità del delitto addebitato e quanto vi è di utile per misurare il condizionamento iniziale. Ma con delle avvertenze. Sembra irragionevole, infatti, richiedere ai giudici di assumere le improvvisare vesti dell’antropologo immerso nel contesto ambientale dell’imputato, esponendosi al rischio di incorrere in pregiudizi personali e pertanto arbitrari. Bisogna piuttosto affidarsi alle scienze umane, le quali solo oggettivamente, possono riscostruire il retroterra culturale di provenienza, sapendo distinguere i cosiddetti limiti non negoziabili.

Già perché di questo si tratta alla fine, concludono Gianaria e Mittone: tentare la soluzione di bilanciamento dei valori in gioco.

Lo sforzo è di riuscire a realizzare l’inclusione dell’altro, componendo una <<società decente>>, fatta di coesistenza e confronto, con l’obiettivo quindi di una “possibilità” di vita in comune, negoziandone i limiti, e non necessariamente un “progetto” predeterminato di vivere in comune che, per sua natura, presupporrebbe imposizioni inaccettabili fra diversi.

Un esempio concreto? Si può tollerare il velo sul volto di una donna che non lo rifiuti; non è accettabile che la donna subisca in silenzio scudisciate punitive nel caso vi si opponga.

A tal punto giunti, si integra il pensiero del filosofo.

F.M. Cacciatore, con inusuale sensibilità e non sospettabile competenza giuridica, criticando dappresso il cosiddetto “pacchetto sicurezza” e per esso il reato di immigrazione illegale, intende riconquistare al dibattito la <<centralità del diritto alla cittadinanza>>, aborrendo l’idea <<dell’origine>> e dunque <<dell’autoctonia>>.

La comunità- afferma il filosofo, aprendo un nuovo orizzonte di riflessione- può essere un artefatto culturale (d’altronde, come hanno inteso realizzare tutti i nazionalismi) con i suoi miti e i suoi cinetafi quali condizioni di immaginabilità e di appartenenza di un gruppo. Ed un gruppo così costruito, volendo parafrasare Kant, se e quando benevolo, dispensa filantropia, essendo invece parco nel riconoscere i diritti. Può anche essere, però, cittadinanza universale in cui non si metta viceversa in discussione il diritto ad una incondizionata ospitalità a chi arrivi in terra d’altri per essere accolto. Col che, di conseguenza, escludendosi curvature autoritarie e metodi aggressivi di difesa del suolo e dell’identità nazionale, ma imponendo un balzo in avanti in termini di civiltà e di accoglienza quali cifre di contrasto ad una propaganda anti immigrati che innaffia con la xenofobia ed il razzismo le radici di un inconscio collettivo pieno di paure tenute in vita dal riferimento, appunto, a simboli ed idoli sbagliati.

Per concludere, l’approccio interdisciplinare, per dir così, tra le puntute note dei giuristi e le aperture dei filosofi è metodo da perseguire perché, come anche Habermas di recente ha affermato, nella storia dello stato sociale le aspettative di solidarietà hanno il modo di trasformarsi in pretese giuridiche. A patto che il legislatore sia sensibile alle istanze normative di una cittadinanza democratica che in tanto può trasformare le richieste di solidarietà (avvertite dai filosofi) provenienti dai marginalizzati in veri e propri diritti sociali in quanto esse vengano sospinte dai conati di riconoscimento delle garanzie da parte di chi le rappresenta (veicolate dagli avvocati) ogni volta che l’autorità costituita voglia negarle o disconoscere.

CECCHINO CACCIATORE