Concerti in Luci d’Artista, giovedì 9 il Trio del Conservatorio Martucci al Duomo.

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Giovedì 9 gennaio nella Sala San Tommaso, alle ore 20, penultimo appuntamento con il Trio del Conservatorio “G.Martucci” di Salerno, composto dalla violinista Patrizia De Carlo, dal cellista Dario Orabona e dal pianista Davide Falsino per questa V edizione dei “Concerti in Luci d’Artista”, a cura del Conservatorio “Giuseppe Martucci”, del Cta di Salerno, unitamente all’Associazione “Amici dei concerti di Villa Guariglia”, con il patrocinio morale del Comune di Salerno. L’ingresso è libero.
Il programma della serata sarà completamente dedicato alla prima scuola di Vienna, diviso tra Franz Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart. Nel 1790, a seguito della morte del principe Nikolaus I Esterházy, capostipite della nobile famiglia presso la quale Haydn aveva goduto di una prestigiosa sistemazione per quasi trent’anni, il compositore tedesco prese congedo dalla corte di Eisenstadt accettando un remunerativo ingaggio per una serie di concerti da svolgere a Londra. Il grande successo ottenuto fornì ad Haydn una notevole popolarità e numerose conoscenze, tra le quali figurava anche la talentuosa pianista Theresa Jansen destinataria di un discreto numero di opere dedicatele dall’autore, tra cui i trii n. 43, 44 e 45. Ultimo dei tre, il Trio in mi bemolle maggiore, che inaugurerà la serata Hob. XV29, si apre con un Poco Allegretto dal carattere aperto e brillante, dove lo schema tipico del lied (A-B-A’) combinato alla tecnica della variazione è marcatamente identificabile nell’accostamento della parte iniziale maggiore con la successiva minore. Un magnifico Andantino ed innocentemente, dove atmosfere distese vengono magistralmente accostate a tinte più drammatiche, conduce al Finale. Allemanda. Presto assai, dove la tipicità della danza viene stravolta da una scrittura brillante e tecnicamente virtuosistica che conduce il brano alla sua affermativa conclusione. A seguire, la formazione proporrà il trio in Sol KV 496 di Wolfgang Amadeus Mozart, ultimato a Vienna, l’8 luglio del 1796, una partitura nella quale per la prima volta l’aspetto dialogico e, per contro, l’opposizione tra gruppi strumentali (archi da una parte e pianoforte dall’altra) sono sistematicamente sviluppati. Il manoscritto, cosa veramente insolita per il genio di Salisburgo, reca una serie di correzioni e modifiche, alcune realizzate con inchiostro rosso. Ciò è forse spiegato dalla vicinanza dell’opera alla composizione e alla prima de’ “Le nozze di Figaro”, e alla conseguente perdita di tempo e concentrazione. Anche così, il secondo piano trio è un lavoro sostanziale, che richiede quasi mezz’ora di esibizione – il più lungo dei sei. Il primo movimento, un allegro, si apre con un assolo di pianoforte scintillante, che dà vita, nello sviluppo, a momenti di emozionale drammaticità. Il secondo movimento è un andante molto ampio, sicuramente il meno impegnativo dei tre, mentre nel finale, Mozart ricorre ad un tema di gavotta, affidato al pianoforte, su cui vengono costruite sei variazioni, caratterizzate da raffinatezza e amabilità, le prime tre, la quarta cupa e meditativa, d’impronta bachiana, la quinta che propone un intenso dialogo tra pianoforte e violino, mentre la sesta riprende il tema iniziale, arricchito da arpeggi pianistici e da una reminiscenza della quarta variazione.
Nel novero dei generi cameristici occidentali il trio con pianoforte è stato a lungo tra quelli che hanno goduto di miglior salute, nonostante la poco omogenea sonorità delle sue componenti strumentali, non a torto denunciata del resto apertamente in una sua lettera da Ciaikovski. Il problema non era però solo quello di amalgamare timbri tra di loro diversi, bensì anche quello di costruire un discorso paritetico ed egualitario tra strumenti dalle svariate e quasi opposte caratteristiche, pur tenendo conto appunto di queste loro diverse peculiarità. Il primo decisivo passo verso uno stile concertante è presente già in Haydn che, se si trascurano i tentativi di Schobert e di Vogler, può essere a ragione considerato il padre del genere, nato da una radicale trasformazione classicista (con l’adesione alla forma-sonata gradualmente diffusa ed imposta dallo stesso Haydn) della sonata a tre barocca. Non è però certo, questo, un merito che deriva solo da un dato quantitativo, anche se i suoi trentuno trii con pianoforte (senza contare un’altra decina di dubbia attribuzione) lo pongono tra i maggiori esponenti di questo genere da camera, bensì soprattutto da un fatto sostanziale. Il pianoforte gradatamente perde difatti in Haydn la sua caratteristica di riempitivo (quasi alla maniera della inveterata prassi del basso continuo) per assumere una sua perfetta identità all’interno del dialogo strumentale a tre. E’ semmai il violoncello ad essere costretto ancora ai maggiori sacrifici in rapporto alla sua potenzialità. Il trio in sol maggiore, che possiamo considerare il più noto della serie, Haydn mai deroga alle sue connaturate idee di una compostezza formale (classica, appunto) che assume, dato l’ambiente cameristico, toni dimessi e conversevoli. Nel tono della galante “plaisanterie” settecentesca permangono le variazioni del primo tempo (Andante), mentre nel successivo (Poco Adagio) la cantabilità si fa più intimamente lirica e lascia ampi squarci al violino. Fiore all’occhiello del Trio è però il brillante Rondò all’Ungarese (un espediente che ricorre anche nel Concerto per pianoforte in re maggiore dello stesso Haydn), con un motivo magiaro che rimbalza allegramente, aggiungendo un tono di spiritosa animazione all’assieme. forse la pagina che più nel XIX secolo condensa le fascinazioni che il genere Tzigano sortì sui compositori classici.